Non ho mai avuto paura del buio, nemmeno da bambina. Nè ho mai particolarmente amato l'estate: c'è troppa luce, soprattutto in quei mezzogiorni troppo tersi di quando ha appena piovuto.
Senza ombre non può esistere la tridimensionalità.
Le ombre sono necessarie. Per questo l'autunno mi piace.
Se la luce disegna i giorni d'estate, le ombre scolpiscono quelli d'autunno.
Le bozze e i colori per me appartengono rispettivamente alla primavera e all'inverno.
Ma queste giornate sono chiaroscuri. E quando c'è il sole, l'atmosfera creata dai tramonti mi ricorda quella del San Girolamo Nello Studio di Albrecht Durer. La morbidezza di ombre e luci che segnano il passo quieto del lavoro, l'approssimarsi del riposo.
Ogni fine giornata faccio i conti con la mia insoddisfazione nel non poter fare abbastanza. Ma cambiare le cose questa volta non è in mio potere, perlomeno non ora, anche se vorrei poter tornare alla mia ferrea autodisciplina. Il mio corpo fatica, e si trova in quello stesso crepuscolo della stagione, in una strana assonanza di mondi.
Spesso penso che questa necessità di rallentare, di rallentarsi, si accordi male col lavoro creativo. Scrivere o disegnare, o anche penso fare musica, teatro, danza, impongono una volontà forte e determinata, una quotidianità fatta di impegno e sacrificio, ritmi dettati da inevitabili scadenze, e non sempre si è pronti. E a questo punto, se sei abbastanza avanti con l'esperienza, sai che devi trovare un modo, il "tuo" modo, di collegare le necessità.
Ma adesso è autunno, ed è necessario fermarsi. Soprattutto se durante le stagioni precedenti si è corso troppo su sentieri sconosciuti e adesso ci si trova da qualche parte, in qualche posto mai visto prima.
In queste condizioni, se non si hanno mappe a disposizione, occorre esplorare il nuovo territorio psichico e cercare direzioni, orientarsi, trovare il nord e puntare sempre in quella direzione.
E per farlo, occorre restare fermi, anche solo per un po'.
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