venerdì 24 giugno 2016

Luttuosità

Il mese scorso, dopo una caduta nel vuoto da un precipizio di circa 1/2 cm, la mia bellissima, amata tisaniera di vetro è morta suicida.
Profondamente scossa dall'avvenimento, riesco solo ora a darne il triste annuncio.
Riposa nel paradiso delle tisaniere di vetro borosilicato.
La tua erede dell'ikea, più vichinga, più resistente, vivrà certamente più a lungo, ma non sarà mai bella quanto te.
Adddio mia cara. Nessuna ti sostituirà nel mio cuore. T___T

♫ The Cure: The Funeral Party

mercoledì 22 giugno 2016

Endorfine, Dieta e Horatio Hornblower

55 kg. Ho perso 7 kg dallo scorso novembre e ho il diritto umanitario di comprarmi qualcosa di carino. E contestualizzando la situazione nel "mio" concetto di "carino": giacca militare ottocentesca che appena indossata si è materializzato Horatio Hornblower capitano e mi ha consegnato la sua nave, ammutinandosi di sua spontanea volontà.
"Hai fatto benissimo, le tue endorfine volevano quella giacca" mi ha detto "la Paola", colta e saggia dispensatrice di consigli e dissipatrice di sensi di colpa (soprattutto). 
Ecco, le mie endorfine ringraziano. E pure io, a dire il vero.
E il senso di colpa? Lo affoghiamo. :)

♫ PituraFreska: Murassi

domenica 12 giugno 2016

Io e la lingua giapponese

私と日本語, ovvero Io e la lingua giapponese.
Non sono certa che si scriva così, nè se sia corretto scriverlo in questo modo, perchè non conosco ancora a sufficienza la grammatica giapponese per poter essere sicura di quello che scrivo.
Ho iniziato a studiare da un po'. Poi ho dovuto interrompere a causa del mio quinto intervento chirurgico e relativa convalescenza, più altri problemi sopraggiunti la scorsa primavera.
Facendo i conti, non ho studiato che pochi mesi tra un'interruzione e l'altra e ora sono in dirittura d'arrivo per quanto riguarda l'ひらがな, il primo dei due sillabari da memorizzare. Ho iniziato a familiarizzare con i fondamenti della grammatica e con i primi kanji.


Ho desiderato studiare la lingua giapponese fin dai tempi dell'università. Ho dovuto rimandare per tutta una serie di ragioni, fino a quando mi sono stancata di procrasrtinare e ho deciso di affrontare l'argomento. Il Giappone e la sua cultura mi affascinano fin dall'infanzia.
Ricordo che continuavo a ripetere un kanji che avevo visto da qualche parte, tra i titoli di coda di qualcuno dei "cartoni animati", come si chiamavano all'epoca, che guardavo. Non ne conoscevo il significato, ma mi piaceva la forma, il potenziale racchiuso nel simbolo. Ho scoperto recentemente che si trattava del kanji "火", "fuoco". Attendo di scoprire, mentre procedo nel mio percorso di studio, quali altri significati avrà.

♫ Anna Tsuchiya inspì Nana/Black Stones: 黒い涙

mercoledì 8 giugno 2016

La Teoria dei Cucchiai

Girovagando in rete alla ricerca di siti di informazione, mi sono imbattuta in questo blog. Riporta, tra le tante inofrmazioni utili a pazienti affetti di artrite reumatoide, la Teoria dei Cucchiai.
Spiegare come si vive con una malattia cronica è sempre difficile, io per prima vivo questo gap tra me e gli altri con molta difficoltà.
La blogger Christine Miserandino vi è riuscita con questa metafora, da lei inventata e raccontata. Christine è affetta da Lupus, ma si tratta di qualcosa di utile per spiegare anche come si vive con altre malattie di questo tipo. Come la mia: l'artrite reumatoide.
Buona lettura.


La Teoria dei Cucchiai, di Christine Miserandino
Ero in un diner con la mia migliore amica e stavamo facendo due chiacchiere.
Come al solito, eravamo in estremo ritardo e stavamo mangiando le nostre patatine fritte con salsa.
Come tutte le ragazze della nostra età, passavamo un sacco di tempo nei diner ai tempi dell’università, per lo più a parlare di ragazzi, musica o cose insignificanti, ma che al momento ci sembravano molto importanti.
Non parlavamo mai di cose serie e passavamo la maggior pare del nostro tempo a ridere e scherzare.
Ma non appena ho preso le mie medicine insieme al mio spuntino, come facevo di solito, la mia amica ha iniziato a fissarmi con una specie di sguardo imbarazzante invece di continuare a parlare.
Poi, dal nulla, mi ha chiesto come ci si sentiva ad avere il Lupus e ad essere malata.
Sono rimasta scioccata, non solo perché la domanda era del tutto nuova, ma anche perché ero convinta che sapesse tutto quello che c’era da sapere sul Lupus.
Mi aveva accompagnato dai dottori, mi aveva vista camminare con un bastone, e vomitare nel bagno.
Mi aveva vista piangere dal dolore, cos’altro c’era da sapere?
Ho iniziato a divagare parlando di medicine, dolori e fastidi, ma lei continuava ad incalzare e non sembrava soddisfatta delle mie risposte.
Ero un pochino sorpresa, perché, essendo mia compagna di stanza all’università e amica da tanti anni, pensavo conoscesse già la definizione medica di Lupus.
Poi mi ha guardata con quella faccia che le persone malate conoscono bene, la faccia della pura curiosità verso qualcosa che nessuna persona sana riesce davvero a comprendere.
Mi ha chiesto come ci si sentisse, non fisicamente, ma come ci si sentisse ad essere me, ad essere malata.
Mentre cercavo di ricompormi, guardavo intorno al tavolo per cercare un aiuto o un suggerimento, o almeno il tempo di pensare. Stavo cercando le parole giuste. Che risposta dare agli altri se non ne avevo per me? Come spiegare in dettaglio come ci si sente tutti i giorni e le emozioni che una persona malata vive ogni giorno con chiarezza?
Avrei potuto lasciar perdere, uscirmene con una battuta, come faccio di solito, e cambiare argomento, ma continuavo a pensare: se non provo a spiegarglielo, come posso pretendere che mi capisca? Se non riesco a spiegarlo alla mia più cara amica, come potrei pensare di spiegare il mio mondo agli altri?
Dovevo, perlomeno, fare un tentativo.
É stato allora che è nata la teoria dei cucchiai. Ho preso velocemente tutti i cucchiai dal tavolo; accidenti, ho preso i cucchiai anche dagli altri tavoli! L’ho guardata negli occhi e le ho detto: “Ecco, adesso hai il Lupus”. Mi ha guardata un po’ confusa, come farebbe chiunque riceva un mazzo di cucchiai.
I cucchiai di metallo freddo sferragliavano nelle mie mani non appena li ho raggruppati e spinti nelle sue mani.
Le ho spiegato che la differenza tra essere malati e essere sani sta nel fare delle scelte o pensare coscientemente a cose che il resto del mondo può tranquillamente ignorare. La persona sana si può permettere il lusso di una vita senza scelte, un dono che molte persone danno per scontato.
La maggior parte delle persone inizia la giornata con un numero illimitato di possibilità e l’energia necessaria per fare qualunque cosa desiderino fare, soprattutto se giovani. Per lo più, non devono preoccuparsi degli effetti delle loro azioni. Dunque, per spiegarlo ho usato appunto i cucchiai. Volevo qualcosa che lei potesse realmente afferrare, e che io potessi poi sottrarle, dato che la maggior parte delle persone che si ammalano sentono come una “perdita” della vita che conoscevano prima. Se fossi riuscita ad avere il controllo sulla sottrazione dei cucchiai, allora lei avrebbe capito come ci si sente quando qualcuno o qualcos’altro, in questo caso il Lupus, ha il controllo su di te.
Lei ha afferrato i cucchiai con entusiasmo. Non capiva quello che stavo facendo, ma era sempre pronta per il divertimento, quindi credo pensasse che stessi scherzando, come faccio di solito quando si parla di argomenti delicati.
Era ben lontana dall’immaginare quanto seria sarei diventata.
Le ho chiesto di contare i cucchiai. Mi ha chiesto perché e le ho spigato che quando sei sano, di solito, hai a disposizione un’infinita fornitura di cucchiai. Ma quando devi pianificare le tue giornate, hai bisogno di sapere esattamente con quanti “cucchiai” stai iniziando la tua giornata.
Ciò non vuol dire che tu non possa perderne qualcuno per strada, ma almeno ti aiuta a capire con quanti cucchiai inizi la giornata. La mia amica ha contato 12 cucchiai. Ha riso e ha detto che ne voleva di più. Le ho detto di no, e ho capito che quel giochetto stava già funzionando, quando mi ha guardata contrariata e non avevamo ancora iniziato. Ho desiderato per anni avere più cucchiai a disposizione e non ho ancora capito come fare, perché lei avrebbe dovuto averli? Le ho anche spiegato che doveva sempre sapere esattamente quanti cucchiai aveva, e di non lasciarli cadere perché non puoi mai dimenticare di avere il Lupus.
Le ho chiesto di elencare i compiti della sua giornata, compresi i più semplici. Mentre snocciolava faccende quotidiane o semplicemente cose divertenti da fare, le spiegavo come ciascuna di queste attività le sarebbe costata un cucchiaio. Quando si è buttata direttamente sul prepararsi per andare a lavoro l’ho stoppata e le ho preso un cucchiaio. Le sono praticamente saltata alla gola e le ho detto: “No, non ti alzi di punto in bianco. Devi prima aprire gli occhi e renderti conto di essere in ritardo. Non hai dormito bene quella notte. Devi strisciare fuori dal letto e poi devi prepararti qualcosa da mangiare prima di poter fare qualsiasi altra cosa, perché se non lo fai non puoi prendere le tue medicine e se non lo fai allora tanto vale che lasci tutti i tuoi cucchiai per oggi e anche domani”.
Le ho tolto via un cucchiaio velocemente e lei si è resa conto di non essersi ancora vestita. Fare la doccia le è costato un altro cucchiaio, solo per lavarsi i capelli e depilarsi le gambe.
Strapazzarsi così presto la mattina potrebbe effettivamente costare più di un cucchiaio, ma ho pensato di volerle dare una pausa; non volevo spaventarla subito. Vestirsi valeva un altro cucchiaio. La stoppavo e guastavo ogni compito per mostrarle come ogni piccolo dettaglio deve essere pensato. Non puoi semplicemente buttarti i vestiti addosso quando sei malata. Le ho spiegato che devo vedere quali vestiti posso fisicamente mettere su, se mi fanno male le mani quel giorno i bottoni sono fuori discussione. Se ho dei lividi quel giorno, devo indossare maniche lunghe, e se ho la febbre ho bisogno di un maglione per stare al caldo, e così via.
Se i miei capelli stanno cadendo ho bisogno di dedicargli più tempo per sembrare presentabile, e quindi altri 5 minuti se ne vanno per sentirti male pensando che ci hai messo 2 ore per fare tutto questo.
Penso che stesse iniziando a capire quando teoricamente non era ancora andata a lavoro, e aveva già dovuto lasciare 6 cucchiai.
Le ho poi spiegato che aveva bisogno di scegliere il resto della sua giornata con saggezza, perché quando i tuoi “cucchiai” sono andati, sono andati.
A volte si può prendere in prestito dei “cucchiai” del giorno seguente, ma bisogna pensare a come quel giorno seguente potrebbe essere difficile con meno “cucchiai”.
Le ho anche dovuto spiegare che una persona che è malata vive sempre con l’incombente pensiero che domani potrebbe essere il giorno in cui arriva un raffreddore o un’infezione, o un qualsiasi numero di cose che potrebbero essere molto pericolose. Quindi non vuoi rimanere con pochi “cucchiai”, perché non sai mai quando ne hai veramente bisogno.
Non volevo deprimerla, ma dovevo essere realista, e purtroppo essere preparati al peggio è parte di un ogni giorno reale per me.
Siamo andate avanti con per il resto della giornata, e lei ha lentamente imparato che saltare il pranzo le sarebbe costato un cucchiaio, così come stare in piedi su un treno, o anche lavorare al computer troppo a lungo. È stata costretta a fare delle scelte e a pensare le cose in modo diverso. Ipoteticamente, ha dovuto scegliere di non fare la spesa, per poter cenare quella sera.
Quando siamo arrivate alla fine della sua finta giornata, mi ha detto che aveva fame. Ho sintetizzato dicendo che doveva cenare, ma le era rimasto un solo cucchiaio. Se avesse cucinato, non avrebbe avuto abbastanza energia per pulire le pentole. Se fosse andata a cena fuori, probabilmente sarebbe stata troppo stanca per guidare a casa in sicurezza e le ho anche spiegato che alla fine si sarebbe sentita comunque nauseata, dunque cucinare sarebbe stato comunque fuori discussione. Così ha deciso di farsi una zuppa, è stato facile. Ho poi detto che erano solo 7:00, e aveva dunque il resto della serata ancora, ma probabilmente sarebbe rimasta con un cucchiaio, quindi poteva fare qualcosa di divertente, oppure pulire il suo appartamento, o fare le faccende, ma non poteva fare tutto.
Raramente la vedo emotivamente coinvolta, così quando ho visto la sua espressione turbata ho capito che forse stavo esagerando. Non volevo sconvolgerla, ma allo stesso tempo ero felice di pensare finalmente che forse qualcuno riusciva a capirmi un pochino. Aveva le lacrime agli occhi e mi ha chiesto a bassa voce “Christine, ma come fai? Come fai a vivere davvero così tutti i giorni?” e io le ho spiegato che alcuni giorni erano peggiori di altri; alcuni giorni ho più cucchiai del solito. Ma non posso mandare via la malattia, e non posso dimenticarmene, devo sempre pensarci. Le ho allungato un cucchiaio che avevo tenuto di riserva. E le ho detto semplicemente, “Ho imparato a vivere la vita con un cucchiaio in più in tasca, di riserva. Bisogna sempre essere sempre preparati”.
E’ difficile, la cosa più difficile che abbia mai dovuto imparare a fare è rallentare, e non fare tutto. Questa è stata la mia battaglia fino ad oggi. Odio sentirmi lasciata fuori, dover scegliere di rimanere a casa, o non fare le cose che voglio fare. Volevo che sentisse la frustrazione.
Volevo che capisse che tutto quello che chiunque altro riesce a fare con facilità, per me è un centinaio di piccoli lavori in uno. Ho bisogno di pensare al tempo, alla mia temperatura di quel giorno, e agli impegni di tutta la giornata prima di poter fare qualunque cosa. Se le altre persone possono semplicemente fare le cose, io devo creare un piano come si crea una strategia di guerra. E la differenza tra essere malato e sano sta proprio in questo stile di vita. E’ la bellissima capacità di non pensare e limitarsi a fare. Mi manca quella libertà. Mi manca il non dover mai contare i miei “cucchiai”.
Dopo esserci lasciate andare e parlato di questo per un po’, sentivo che era triste. Forse aveva finalmente capito. Forse si era resa conto che non avrebbe mai potuto veramente e onestamente dire di capirmi. Ma almeno adesso non avrebbe potuto lamentarsi così tanto quando non potevo andare fuori a cena certe sere, o quando non riuscivo ad andare a casa sua e doveva essere sempre lei a venire da me.
Le ho dato un abbraccio quando siamo uscite dal diner. Avevo un cucchiaio in mano e le ho detto “Non ti preoccupare. Io la vedo come una benedizione. Sono stata costretta a pensare a tutto quello che faccio. Sai quanti cucchiai sprecano ogni giorno le altre persone? Non ho spazio per il tempo sprecato, o “cucchiai” sprecati, e ho scelto di trascorrere questo tempo con te.”
Da quella sera, ho usato la teoria dei cucchiai per spiegare la mia vita a molte persone. In realtà, la mia famiglia e i miei amici ormai fanno riferimento ai cucchiai tutto il tempo. E’ diventata una parola in codice per descrivere quello che posso e non posso fare. Quando le persone capiscono la teoria dei cucchiai sembrano comprendere meglio me, ma penso anche che la loro vita sia un po’ troppo diversa dalla mia. E penso che questa teoria non aiuti a comprendere solamente il Lupus, ma chiunque abbia a che fare con una qualsiasi forma di disabilità o malattia.

Responsabilità

Respons-abilità significa "abilità di rispondere", non è un dovere. Quando l'altro ti invita tu entri e quando l'altro non ti invita non interferisci, non invadi.


♫ Goldfrapp: Felt Mountain

martedì 7 giugno 2016

Tossico a Lungo Termine

Sono così stanca da non riuscire a svegliarmi.
Ieri pomeriggio ho dovuto mio malgrado trascinarmi a letto perchè non riuscivo a sopportare nemmeno il peso del mio stesso corpo.
56 chili per uno e sessanta. Forse ormai qualcosa di meno.
Mangiare poco per diminuire il carico sulle articolazioni ti indebolisce.
Immunosoppressori, antiepilettici, talvolta cortisonici, antinfiammatori non steroidei, ti indeboliscono. Gli effetti collaterali a lungo termine, quando va bene, ti indeboliscono.
Su molti dei farmaci che prendo c'è una dicitura: "tossico a lungo termine". Mi auguro, e mi impegno e lotto per essere più tossica io.
La malattia ti indebolisce. Gli interventi chirurgici ti fiaccano.
E finisce che dormi e lotti per svegliarti. Ti senti risucchiare dal sonno. Come il non volerti risvegliare da un'altra dimensione che ti allaccia a sè. Il bisogno estremo di un corpo che fatica.
Poi capita qualcosa e senti il bisogno di giustificarti perchè non sei riuscita a svolgere un compito in maniera ottimale. E hai quella necessità di dirlo che no, non è colpa tua, che sei solo mortalmente stanca e che fai il possibile. Che in questa continua guerra quotidiana non esiste resa, ma ci sono momenti dove hai davvero bisogno di scavarti una trincea e riposare. Fino al prossimo attacco, fino alla prossima battaglia. Per essere funzionale, per rispondere meglio, perchè la vigilanza e la risposta sono essenziali in casi come questi.
Poi ti dici che NO, che ne hai avuto a sufficienza.
Sono stufa di dovermi giustificare per ogni mancanza che non dipenda da me e dalla mia volontà. Io ce la metto tutta, sempre. Butto il ferro a fondo in ogni cosa che faccio. E' caratteriale, è la mia volontà, la mia personalità. Sono fatta così.
 

Per molto tempo la mia decisione era stata quella di non parlare apertamente della mia malattia. L'ho sempre considerata un fatto personale, da escludere dalle cose che faccio, da tenere da parte.
E se ti ci metti d'impegno, se insisti, puoi anche ignorare questa cosa e relegarla al fondo della tua vita, sminuirla, svalutarla. Puoi trascinartela dietro come un peso morto, tu sempre due passi avanti a te stessa, ma per farlo dovrai sottostimarla.
E a un certo punto ti accorgi che questo è un meccanismo perverso e pericoloso.
Inizi a colpevolizzarti quando arranchi sulla tua strada, perchè non la vedi nemmeno la malattia tra te e i tuoi orizzonti.
Poi capita che parli con una delle persone che quasi venti anni fa ti ha rimesso in piedi dopo uno di quegli interventi chirurgici che ti obbligano a mesi di convalescenza, lotta e recupero fisico. "Servono testoline come la tua per far capire la differenza tra l'artrite reumatoide e altre cavolate. Servono testoline come la tua  per rendere le persone consapevoli di cosa sia.".
Ed è questa in fondo la ragione per cui ho iniziato a scriverne.
"Feel The Fear And Do It Anyway". Lo dice una persona che conosco poco, ma quel poco che conosco lo stimo profondamente. 
E mi sono detta: Proviamoci.
Forse è questo il modo per far cambiare la percezione delle cose.

 ♫ Radiohead: Optimistic

sabato 4 giugno 2016

Nota a Margine

"Nella morsa del materialismo spirituale e della noiosa superficialita' della corrente commerciale del -pensiero positivo- .... ahinoi ... Molti ritengono che pratica buona corrisponda a salute, successo e onori e che se si manifestano malattie e debolezze cio' sia segno di cattiva pratica e fallimento anche spirituale.
Mi pare invece che il segno di superficialita' spirituale sia la complicita' con la violenza passiva della strategia predatoria nel relativismo opportunista e la dispotica attitudine giudicante, separativa, biasimante che pretende il successo, il controllo ... che non vede a fondo e non consente il processo di depurazione e distillazione."

Anna Yeshe Dorje.
Amica e Traduttrice dal Tibetano (anche per il Dalai Lama)
Grazie.


 Amethystium: Ethereal

giovedì 2 giugno 2016

Sul Rispetto.

Ieri, per la prima volta, mi è capitato di sentir parlare di Scrivere con rispetto. Devo ringraziare la persona che lo ha fatto, non appena ne avrò la possibilità.
Un'attività "creativa" si chiama così per una ragione: perchè crea, ma soprattutto perchè "ci" crea. Come esseri, come persone.
E merita rispetto per la vita intrinseca che ha. Come fosse davvero un'entità vivente con un proprio respiro, la propria necessità di dormire, poi di svegliarsi e lavorare e riposarsi. Va nutrita e va curata, prchè poi quando sarà cresciuta e divenuta abbastanza forte, sarà lei a nutrire noi.
Quando ci viene affidata una cosa come questa, possiamo rispettarla e trattarla come merita. Oppure possiamo servircene e usarla. Ed essa si comporterà esattamente come una persona usata: si arrabbierà, metterà il muso e non ci parlerà più.
Ciao. Fine delle idee, idee partorite settimine, morte in culla, abortite, malate.
Lo stesso vale per la danza, per lo sport, per la musica. Per disegnare, studiare una lingua straniera, le usanze di un popolo, la storia dell'arte. Poi volare, navigare, camminare.
Non importa cosa facciate: prendetevene cura, abbiatene Rispetto e trattatela con amore, come fosse una persona. Non sbaglierete mai.

Dead can Dance: Return of the She King

mercoledì 1 giugno 2016

La Costituzione della Repubblica della Felicità

A Vilnius, in Lituania, c'è il quartiere di Uzupis. Che è un quartiere di Artisti con una Costituzione.
Ecco, è una cosa bellissima. A me piacciono particolarmente questi Articoli. Sono Sette, e "sette" per me è un numero particolare.


4. Tutti hanno il diritto di fare errori
5. Tutti hanno il diritto di essere unici
14. A volte si ha il diritto di essere inconsapevoli dei propri doveri
15. Tutti hanno il diritto di avere dei dubbi, ma non è obbligatorio
16. Tutti hanno il diritto di essere felici
17. Tutti hanno il diritto di essere infelici
27. Tutti devono ricordare il proprio nome


Qui c'è tutta la Costituzione del quartiere degli artisti, anche con una spiegazione che io eviterei perchè a volte le cose sono come quei sogni che si fanno senza capirne il significato. Poi magari passano mesi, eventi che scorrono disordinati e in un attimo quel sogno è la chiave per vederli tutti nella giusta prospettiva.
Questo succede perchè ogni Significante ha biogno del proprio Momento a cui legarsi. E' in questo modo che diventa Significato.

Gogol Bordello: Wonderlust King