mercoledì 31 gennaio 2018

L'inverno

Un tempo febbraio era un mese attesissimo dai bambini. Era una grande festa: arrivava il carnevale. Si teneva la sfilata per le vie del paese e si poteva trascorrere una giornata vestiti in maschera anche a scuola.
La neve capitava abbastanza spesso, e ricordo mia madre che cuciva vestiti di carnevale badando a scegliere tessuti spessi e pesanti. “A’s sa mai c’ag sìa la név”.

Per me il periodo compreso tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio aveva un’importanza diversa, racchiusa in un contesto familiare. Nelle campagne dove sono nata e scresciuta la dimensione stagionale del tempo si avvertiva con forza. E’ così anche adesso, pur se in maniera meno evidente.
Quando ero piccola la mia famiglia era composta non solo da mio padre, mia madre e mia sorella. Ma anche da uno zio, lo zio Felice, con la moglie, e da mia nonna.
Si aggiungevano lo zio Amleto, che viveva a Gualtieri con la famiglia; la famiglia dell'altra casa del nostro cortile e tanti altri personaggi del paese, amici di famiglia e conoscenti che arrivavano spesso in corte quando c’era da fare del lavoro: d’estate tagliare l’erba sugli argini e d’inverno aiutare magari a spalare la neve.
Quando nevicava, io sgattaiolavo a casa di mia nonna.
Mia nonna Elvira, che tutti chiamavano “Elena”, occupava un piccolo cucinino che si affacciava sul giardino e sulla “fuga” che portava alla strada sopra l’argine tra Sabbioni e San Matteo. La nonna stava seduta sull’ottomana di vecchio broccato fissato sul telaio di legno da lucide borchie di ottone. Faceva la maglia, un piede sulla sedia perché aveva il diabete e le dava sollievo tenere la gamba distesa, e un occhio alla strada.
Quando nevicava capitava che lei cucinasse qualcosa di speciale: i chisulàin con la polenta, focaccine dolci fritte nello strutto. Oppure la versione salata della mia merenda: il lardo pestato, da spalmare sulla polenta o sul pane caldo.
Me la ricordo ancora mentre si alzava con fatica dal divano, andava a prendere il lardo nel congelatore e preparava le braci nella stufa per scaldare il coltello col quale poi lo batteva, insieme ad aglio e prezzemolo. Un rituale che io, bambina, osservavo ammirata e del quale conservo tuttora nella memoria la solennità di ogni gesto. Benchè fossi troppo piccola per poter organizzare quel sentire in pensieri ordinati, capivo solo da quel modo di fare che "una volta" questo piatto era riservato alle occasioni importanti.
Non glielo dire alla mamma che abbiamo fatto merenda, che sennò dice che non mangi per cena", mi suggeriva lei con aria complice. Io annuivo e ricambiavo, mantenendo il segreto sulla bustina di zucchero a velo "risparmiata" dal pandoro di natale, che lei teneva nascosta dietro al radiatore per evitare di discutere con mio padre e i miei zii sul suo diabete e sul suo stato di salute.

Fuori il giardino era tutto bianco. Non la vedevi più, la fuga che portava all'argine, ormai coperta dalle piante col loro carico di fiocchi. A volte capitava di sentire, in mezzo a tutto quel silenzio, il rumore di una bicicletta che scendeva.
Allora sapevi che era arrivato Dondi, il vecchio che stava dall’altra parte dell’argine, con la casa nella golena dell'Oglio, e che tra un bicchiere di lambrusco e l’altro avrebbe scambiato con la nonna le ultime informazioni gli accadimenti del paese.
In questo modo si faceva arrivare la sera. Tra il crepitare del fuoco, il profumo della cena che sobbolliva sulla stufa e il silenzio della campagna coperta di neve.